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La "socialfotografia"

Quando iniziai a fare fotografia, ancora adolescente, preso dal fuoco della giovinezza, intendevo scattare "opere d'arte" e non avevo nemmeno l'idea di che cosa stessi parlando. Ma si tratta di un comportamento normale a quella età, dove si mischia incoscienza, inesperienza e passione smodata. Quando quelli più esperti di me, parlavano di reportage, semplicemente inorridivo. Chissà: immaginavo che ci fosse la foto assoluta, quella che vale per tutte, quella che se ne scatta una in tutta una vita. Ok, illusioni giovanilistiche...
Poi andando avanti con gli anni capii, guardando le pellicole di Pasolini, di Comencini, di Scola e i lavori fotografici di Gardin, della Battaglia, di Salgado, capii che si potevano unire le due cose: fare reportage capolavori. Parlare della vita in modo poetico e sublime (nel caso di Pasolini, in maniera primitivamente poetica) e cominciai ad avvicinarmi alla foto fatta in strada, letteralmente immergendosi tra la folla, nelle viuzze, nei mercatini, nei centri commerciali. Mi resi conto che per raccontar bene una storia occorre tornare più volte sul luogo prescelto; farsi riconoscere dalle persone senza scattate, senza nemmeno mettere mano alla macchina fotografica.
Devi diventare "uno di quelli".
Poi viene il giorno che la macchina va all'occhio e non si smette più si scattare. Vuoi che ormai l'atmosfera l'hai fatta tua; vuoi che c'è la giusta luce ma sta di fatto che è una sorta di colata lavica che provoca un sussulto ogni volta che ti appare una scena, una storia da fermare scattando.
Queste foto, ancora acerbe e timide le ho scattate in un mercatino rionale di Roma nel 2018.

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